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Crisi in Israele: riforma della giustizia tra politica e magistratura

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di Kishore Bombaci

Ciò che sta accadendo nello Stato di Israele riflette non solo la tensione tra poteri dello Stato che, in una certa misura, è fisiologica negli stati democratici, ma investe interamente l’identità di un popolo e il suo futuro. La riforma giudiziaria proposta da Benjamin Netanhyau rappresenta in questo momento di una sorta crash test della democrazia israeliana e su ciò che questa vorrà essere in futuro.

In termini molto più contenuti e “mutatis mutandis” in Italia sono 30 anni che viviamo questo doppio ruolo (tecnico e afferente alla qualità della democrazia) del tema Giustizia a causa di una certa sovraesposizione della magistratura requirente (il Pubblico Ministero tanto per capirci) che, grazie ai poteri che la Costituzione gli conferisce, ha condizionato e condiziona l’esercizio dell’attività politica. In Israele tutto questo è amplificato anche per effetto di varianti specifiche che trasferiscono l’analisi su un piano ancora superiore.

La prima variante e il reale dato di partenza è che Israele non dispone di una Costituzione in senso stretto, né rigida né flessibile. L’impianto costituzionale infatti è costituito da tredici leggi di rango semi-costituzionale approvate a partire dal 1958 in poi, che individuano e disciplinano, in modo particolare, i diritti individuali dei cittadini. Si tratta di un “bill of rights” aperto, suscettibile cioè di modifiche e ampliamenti con un meccanismo di revisione che consente alla Knesset (il Parlamento monocamerale Israeliano) di aggiornarlo. Queste tredici leggi non rivestono formalmente rango costituzionale, ma lo sono in via consuetudinaria, lasciano aperto però un ampio spazio di incertezza e di libera interpretazione fra gli attori in gioco.

La stessa Corte Suprema israeliana, che non si percepisce pienamente come organo di controllo costituzionale in senso stretto, non ha ritenuto le tredici Leggi come parametri in forza dei quali valutare gli atti legislativi ordinari e anzi ha esercitato il proprio controllo giudiziario più o meno esteso in base a generici criteri di ragionevolezza e urgenza. Ciò ha finito per rendere la sua attività, soprattutto nei primi decenni di vita dello Stato di Israele, estremamente incerta e labile, affidata più o meno alla consuetudine e finanche alla sensibilità degli stessi giudici che compongono la Corte.

Questa impostazione, seppur da un certo punto di vista comprensibile, denota “in nuce” un’alea costituzionale che apre la strada a una conflittualità di fatto tra poteri dello Stato. Infatti, o che vi sia una Costituzione rigida come in Italia o negli Usa o che il valore costituzionale della consuetudine (come in Gran Bretagna) si fondi su un Bill of Rights certo e determinato, che funga da criterio di valutazione della normazione, l’esistenza di un chiaro confine al potere giudiziario agevola la certezza del diritto e finisce per limitare ipso facto anche il potere politico.

In Israele tutto ciò non esiste in modo marcato e, quindi, i rapporti di forza, si fanno mobili.

A partire dagli anni ’90, poi la Corte Suprema Israeliana ha ampliato i propri poteri di intervento fino ad annullare alcuni provvedimenti legislativi, amministrativi e persino alcune nomine, in virtù però di parametri generici eppure forieri di conseguenze imprevedibili. L’introduzione per via giudiziaria del principio di vincolatività degli atti di una legislatura sull’azione della successiva, ad esempio, minano il rapporto tra corpo elettorale e classe politica, meno libera di esplicare il proprio mandato elettorale quando di “colore politico” diverso dalla precedente maggioranza. Chiara conseguenza della compressione del principio di sovranità popolare (o meglio, della sua piena operatività) è l’estensione dell’influenza del controllore: cioè la magistratura medesima. Innanzi a questa progressiva “invasione costituzionale” operata nel corso degli ultimi decenni dalla Corte Suprema il potere legislativo ha avuto una reazione – soprattutto a destra – che ha tentato di limitare “eccesso di potere” . Oggi siamo giunti al punto di rottura di questo processo.

Se si considera poi che in Israele i giudici non godono di legittimazione democratica ma sono indicati per nomina, la tensione si è estesa anche a questioni più strutturali e interne proprio al corpus togato, oltre che al campo di applicazione della loro attività.
Infatti, il progetto di riforma Nethanyau intende non solo affrontare decisamente e drasticamente l’attivismo politico della magistratura ma anche ridisegnarne i meccanismi di nomina accentuando il ruolo del Governo in tal senso. Questo ha scatenato le proteste di coloro i quali paventano il rischio di subordinazione del potere giudiziario all’Esecutivo e quindi la riduzione dei contrappesi democratici. Vediamo nel dettaglio che cosa vorrebbe fare l’attuale Premier Israeliano.

La Corte Suprema Israeliana, è al momento costituita da nove giudici e in particolare: due sono ministri, due sono membri della Knesset, due provengono dall’Ordine degli avvocati e tre sono giudici attivi della Corte Suprema. Quindi ben cinque giudici su nove, non godono di legittimazione democratica e possono condizionare le decisioni della Corte su atti provenienti invece del potere legislativo ed esecutivo, democraticamente eletti (direttamente o indirettamente). In questo senso, per riequilibrare la composizione della Corte Suprema il premier israeliano intende aumentare l’influenza del governo sulla nomina mediante un aumento dei giudici nominati dall’esecutivo. Questo servirebbe a conferire uno status diverso, nelle intenzioni del riformatore, più aderente alla volontà popolare e meno “burocratico”. Per gli oppositori, invece, si tratta di un chiaro tentativo di porre sotto controllo il potere giudiziario da parte di un premier non proprio alieno da conflitti di interessi (visti i procedimenti pendenti a carico di Netanhyau).

Sul piano invece della limitazione del protagonismo giudiziario e della rilevanza delle pronunce della Corte sull’impianto normativo, la riforma consentirebbe di alzare la soglia necessaria per cassare le leggi della Knesset in modo da impedire di fatto alla Corte Suprema di abrogare le Leggi Fondamentali o i loro emendamenti. Un quorum elevato per la bocciatura di una legge unita a una composizione maggiormente politica della Corte di fatto renderebbe complicata l’abrogazione legislativa per via giudiziaria.

A ciò aggiungasi la cosiddetta clausola di annullamento, in virtù della quale, con una maggioranza semplice di sessantuno membri, la Knesset potrebbe porre il veto sulle sentenze della Corte, riapprovando cioè la legge ordinaria respinta. Trattasi di un punto estremamente controverso perché, anche in questo caso si limiterebbe in modo sostanziale il diritto della Corte Suprema di effettuare il controllo costituzionale degli atti aventi forza di legge. Una maggioranza parlamentare solida di fatto esautorerebbe la Corte Suprema dal suo ruolo.

Mentre le opposizioni contestano questo effetto depotenziante, le tesi filo-governative invece insistono sul generale riequilibrio dei rapporti tra poteri dello Stato, in favore del potere legislativo, espressione del corpo elettorale. Da questo punto di vista, forse l’introduzione di una maggioranza qualificata per “ribaltare” una sentenza della Corte potrebbe essere un punto di caduta accettabile che salverebbe i lati positivi della riforma e che al contempo verrebbe incontro alle preoccupazioni dell’opposizione.

E’ una situazione a tratti paradossale in cui tutti, al netto della retorica propagandistica, sembrano aver ragione. Tanto Netanhyau che sostiene di “essere stato eletto (anche) per riformare la giustizia” attualmente troppo condizionata dallo strapotere della magistratura, quanto l’opposizione che ne intravede i punti deboli. In ogni caso, ci troviamo di fronte a una questione dirimente per la qualità della democrazia israeliana. Ha ragione il premier che ritiene che il maggior rilievo conferito al corpo politico costituirebbe un rafforzamento della democrazia e della volontà popolare? O hanno ragione gli oppositori che al contrario vedono nella lesione delle prerogative della Corte un indebolimento dei check and balances con il rischio della dittatura della maggioranza?

Le prossime settimane saranno fondamentali per cercare un punto di mediazione che possa impedire al paese di precipitare nel caos e – come è stato sottolineato – nella guerra civile. In questo tanto la maggioranza quanto l’opposizione hanno un ruolo essenziale nel supremo interesse della nazione.

 

(30 marzo 2023)

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